Riscaldamento globale: non ce la possiamo fare, ma probabilmente non ce l’avremmo fatta in ogni caso.

Questa storia è già successa. Due miliardi e mezzo di anni fa una masnada di organismi viventi aveva fame di energia, e alcuni di loro trovarono un modo per ottenerla, eternamente e a buon mercato. Quel patto col demonio però aveva un prezzo: diffondere gas letali, ciecamente, nell’atmosfera. Nel giro di poco tempo le emissioni di gas avvelenarono l’aria, sconvolsero la geologia del pianeta e condannarono incalcolabili quantità di individui. Le rocce si corrodevano, il pianeta si coprì letteralmente di ruggine. Pochi fortunati se la cavarono: alcuni nascosti in nicchie dove il gas non riusciva ad arrivare, altri impararono a conviverci, a utilizzarlo a proprio vantaggio, finché quel veleno non divenne addirittura indispensabile.

Il gas velenoso era l’ossigeno, e i colpevoli si chiamavano cianobatteri o alghe azzurre: i primi microrganismi che emettevano ossigeno tramite la fotosintesi, come oggi fanno le piante. Il Great Oxygenation Event, variamente reso in italiano come “grande evento ossidativo” o “catastrofe dell’ossigeno”, è oggi spesso considerato la prima estinzione di massa del pianeta Terra. L’ossigeno infatti di per sé è un gas tossico. Lasciato a sé stesso aggredisce le molecole biologiche. Riusciamo a domare l’ossigeno e a respirarlo solo perché vari enzimi si occupano incessantemente di spazzare via i prodotti reattivi che ucciderebbero le nostre cellule. Anche se non abbiamo tracce dirette della morìa che accadde con il Great Oxygenation Event, fu senza dubbio una catastrofe ecologica senza precedenti.

se inizia a sciogliersi il permafrost, il terreno gelato nell’Artico, si scongeleranno anche tonnellate di materia organica che diventerà ulteriore CO2 in atmosfera

Due miliardi e mezzo di anni dopo i gas cambiano, la situazione è la stessa. Il report 2018 dell’International Panel on Climate Change non lascia più spazio non dico all’ottimismo, ma alla semplice speranza, che è sempre l’ultima a morire ma è in seria agonia. Primo, è necessario mantenersi sotto +1,5 C di riscaldamento – entro il 2100 – per avere qualche possibilità di gestire il cambiamento. Secondo, bisogna farlo in fretta, entro circa un decennio. Terzo, richiede dei cambiamenti economici, politici, culturali tali e talmente globali in un lasso di tempo talmente ridotto da essere praticamente impossibile. +2 gradi di riscaldamento sono garantiti. Anche seguendo alla lettera gli attuali patti per tagliare le emissioni, ci troveremo serenamente a +3 gradi entro il 2100.

Ogni decimo di grado fa differenza, perché gli effetti del riscaldamento globale non sono lineari. Per esempio se inizia a sciogliersi il permafrost, il terreno gelato nell’Artico, si scongeleranno anche tonnellate di materia organica che diventerà ulteriore CO2 in atmosfera, creando un circolo perverso. Tre gradi di riscaldamento medio significa, secondo varie previsioni, il collasso delle foreste amazzoniche e desertificazione galoppante. Significa distruzione di terre coltivabili: il flusso di fiumi come l’Indo potrebbe crollare, annientando l’agricoltura di regioni estremamente popolate. Significa che intere città finiranno sott’acqua, città come Osaka, Shanghai, Rio de Janeiro, Miami. Significa la distruzione delle barriere coralline, la perdita dei ghiacciai, e così via: di descrizioni delle Apocalissi climatiche ne trovate finché volete.

Ice Calving

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Gli scenari IPCC per frenare il riscaldamento globale portandolo tra 1,5 e 2 gradi sono un’utopia di fantaecologia sotto anfetamine. Per farcela, saremmo costretti a troncare l’uso di combustibili fossili della metà in 15 anni e azzerarlo entro 30; dovremmo abbandonare subito benzina o gas, riconvertire tutta l’industria petrolchimica, riadattare tutta l’industria pesante acciocché catturi la CO2 o usi solo fonti prive di emissioni. Fatto questo? Non basta. La CO2 che è già in atmosfera ci porterà comunque per inerzia a scaldarci, come bambini che soffocano dentro un’automobile sotto al sole d’agosto, e quindi bisogna rimuovere i gas dall’aria. Creare tecnologie per risucchiare via anidride carbonica ed evitare di farne sfiatare un soffio da tutti gli impianti industriali.

Ripiantare foreste su qualcosa come 10 milioni di km quadrati (la superficie della Cina, suppergiù) entro il 2050 – poco meno del Belgio ogni mese. Coltivare massicciamente piante che assorbano CO2, trasformarle in carbonio inerte e seppellirle. Aspirare e sotterrare nuovamente il carbonio che abbiamo estratto dal petrolio e dal carbone, fondamentalmente. Questo ventaglio di tecnologie, noto come bioenergia con cattura di carbonio e stoccaggio, o BECCS, è alla base di quasi tutti gli scenari IPCC per contenere il riscaldamento, ma è fondamentalmente ancora allo stadio embrionale, come descriveva un lungo reportage di Wired l’anno scorso.

È facile capire che tutto questo non accadrà. Come ha detto Gary Yohe, economista ambientale presso la Wesleyan University, riportato da Valigia Blu: «La mia opinione è che 2 gradi sono ambiziosi e 1,5 gradi sono un’aspirazione ridicola. Sono buoni obiettivi da raggiungere, ma dobbiamo cominciare ad abituarci al fatto che potremmo non raggiungerli e pensare più seriamente a come potrebbe essere un mondo con una temperatura di 2,5 o 3 gradi superiore».

Immaginate che domani i governi di tutto il mondo prenderanno l’industria pesante, quella dei combustibili fossili, l’agricoltura e le ribalteranno da cima a fondo?

Potremo e dovremo fare tutto il possibile per avvicinarci a quegli obiettivi, sia chiaro. Dobbiamo farlo perché, appunto, ogni decimo di grado conta tantissimo. Ma non ci arriveremo mai. Non perché sia tecnicamente impossibile – tecnicamente si può fare, anche se è doloroso. Perché non esistono le condizioni sociali, culturali, economiche per avvicinarci neanche lontanamente. Vi pare che le condizioni politiche internazionali siano propizie per interventi di comune armonioso accordo su una scala inimmaginabile? Vi immaginate gli Stati Uniti fare dietrofront nei prossimi giorni su tutta la loro politica energetica? Vi immaginate non solo l’intero Occidente ma anche l’Asia diventare in gran parte vegetariana? Immaginate che domani i governi di tutto il mondo prenderanno l’industria pesante, quella dei combustibili fossili, l’agricoltura e le ribalteranno da cima a fondo – con le conseguenze in termini di posti di lavoro, sussidi, economie locali distrutte eccetera? Se anche un governo, uno solo, avesse la volontà e il pugno di ferro di fare tutto il necessario: pensate che tutto ciò possa accadere senza che il giorno dopo intere popolazioni assaltino i palazzi e annientino quello stesso governo? 

La verità è che la sfida del riscaldamento globale era già persa fin dall’inizio. Non perché non potessimo gestirlo meglio – potevamo – ma perché non siamo nati per questo. Noi Homo sapiens non siamo fatti, semplicemente, per gestire questo problema. Nel 2017 Daina Mazutis e Anna Eckardt contarono, in un articolo su California Management Review, almeno undici distorsioni cognitive che continuano a paralizzarci di fronte al cambiamento climatico. Alcuni esempi ovvi: Possiamo reagire a minacce salienti, che ci colpiscono emotivamente. Ma né il riscaldamento globale né le azioni contro di esso ci danno un riscontro immediato.

Non ci sono eventi che possiamo attribuire con certezza al riscaldamento globale che ci suonino un allarme. Ci sembra sempre, anche ora, una questione remota, futura, di cui si occuperà sempre qualcun altro. Non riusciamo a scindere l’apparentemente ridicolo aumento di temperatura media – cosa vuoi che siano due gradi? – con il fatto che ci saranno degli estremi climatici molto gravi, contenuti in quella media. È sempre una storia di catastrofi lontane nel tempo, apocalissi improbabili paventate da scienziati e descritte svogliatamente da giornali un po’ perplessi. Chi ha paura, di pancia, di un hockey stick, quel grafico a zig zag delle temperature che si impenna? E ci sarà sempre qualcun altro che potrà occuparsene, qualche governo che dovrebbe agire: perché occuparmene io?

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courtesy Wikipedia

La cosa buffa è che l’ultimo bias ha un suo significato. La civiltà attuale, democratica e capitalista, è basata sulla libertà di scelta individuale. Ma le scelte individuali sono inevitabilmente miopi. L’agente razionale è una leggenda degli economisti classici. Le scelte razionali lo sono, se lo sono, sul breve e immediato periodo. Martin Lukacs sul Guardian argomentava, l’anno scorso, che la cultura neoliberista ha distorto perfino i nostri nobili intenti, facendoci credere che si tratti sempre di una questione individuale: mangia meno carne, compra un’auto elettrica, spegni l’aria condizionata, tutte cose che servono a far sgocciolare il mare. Mentre è la struttura stessa della nostra civiltà il problema.

Naomi Klein dice che è il capitalismo in sé, con i suoi incentivi perversi a breve termine, e non la natura umana, ad averci fregato sul clima. Ma alla fine tali incentivi sono quelli di tutti noi. Probabilmente sarebbe accaduto anche in un immaginario paradiso dei soviet: pensiamo davvero che si mantengano dittature tecnocratiche illuminate, che esistano Politburo lungimiranti che lavorano per il luminoso domani, senza che crollino sotto le pressioni di chi ha fame e voglia di libertà oggi? È facilissimo prendere in giro Donald Trump, incazzarsi con i negazionisti del clima pensando che siano dei poveri stupidi, e credere che se noi, oh noi fossimo al governo, allora andrebbe tutto così bene. Chi nega il cambiamento climatico non è più stupido di noi. Cerca di difendere il suo presente, la sua identità, ciò che desidera rispetto a un futuro descritto il più delle volte da astratte Cassandre gonfie di virtue signalling la cui soluzione, spesso, è credere che basti un guru-ingegnere, che lancia fiammanti Tesla nel cielo.

Singapore skyline at sunset and cracked earth

Cheoh Wee KeatGetty Images

Il capitalismo c’entra nella misura in cui eleva i nostri impulsi egoistici a motore della società. La competizione darwiniana è un modo di ottenere dei risultati, invero, la vita intorno a noi ce lo dimostra: ma è un modo assai inefficiente, e incapace di lungimiranza. In contrasto con la celebre ipotesi di Gaia di James Lovelock, l’idea che la Terra sia un armonioso organismo vivente capace di autoequilibrarsi, il paleontologo Peter Ward ha coniato l’ipotesi di Medea: la vita complessa sulla Terra sarebbe un’aberrazione di cui il pianeta cercherebbe sistematicamente di liberarsi.

Entrambe le ipotesi sono in realtà ovviamente metafore da non prendere troppo sul serio. In realtà non ci sono né Gaia né Medea, c’è il caos. Noi, come i cianobatteri due miliardi e mezzo di anni fa, andiamo a tentoni lungo la strada dell’evoluzione. Le abilità cognitive di cui ci vantiamo non sono che uno strumento di sopravvivenza, come i denti delle tigri, le antenne delle falene, la clorofilla nelle foglie, arrabattato per salvarci la pelle in una savana ormai scomparsa. Direste voi che le antenne, i denti, le foglie sono capaci di prevedere future catastrofi e di reagire con saggezza? Il nostro fallimento con la catastrofe del riscaldamento globale non è che la conseguenza del moto cieco della vita lungo la strada più in discesa, a cui non importa se finisce col precipizio.