Planet of the Humans, Michael Moore spacca il movimento ambientalista americano (e non solo) ma dice cose importanti

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Il documentario prodotto da Michael Moore e diretto da Jeff GibbsPlanet of the Humans, èuna bomba sul movimento ambientalista americano che, dall’epoca di Primavera silenziosa di Rachel Carson del 1962, è stato tra i più forti al mondo. Le onde d’urto si faranno inevitabilmente sentire oltre i confini degli Stati Uniti.

La tesi di fondo di Gibbs è che la “green economy” sia un’invenzione dei capitalisti per perpetuare, grazie al mito dell’avvento delle energie da fonti rinnovabili, un modello di crescita fallimentare. Viene preso direttamente di mira uno dei simboli dell’ambientalismo americano, Bill McKibben, che da molti anni si batte per il “disinvestimento” dalle fonti fossili nonché per massicci investimenti nel settore delle rinnovabili.

Il documentario è stato duramente criticato dallo stesso McKibben, da Naomi Klein e da Josh Fox, attivista e autore di uno splendido documentariocontro l’esplosione del “fracking” negli Stati Uniti. Greta Thunberg ha ritwittato McKibben.

Molti ambientalisti hanno accusato Gibbs di utilizzare dati vecchi di almeno dieci anni. Certo, dicono, pannelli solari e pale eoliche si fabbricano impiegando un numero spropositato di materie prime, dal quarzo al cobalto al silicio, ma la loro efficienza è molto migliorata rispetto a quando non superava l’8 per cento. Certo, l’elettricità prodotta con le biomasse può significare disboscamento e piantagioni estensive di canna da zucchero, ma queste rappresentano una quota relativamente piccoladelle rinnovabili (non tanto piccola visto che nel 2020 dovrebbero essere la metà delle rinnovabili nell’Unione europea). Certo, pannelli solari e pale eoliche sono soggetti ad usura, ma comunque possono essere sviluppati cicli “cradle to grave”, dalla produzione alla dismissione, con impatti ambientali contenuti. Certo, da Bloomberg, a Goldman Sachs al resto del cucuzzaro hanno sposato l’economia verde, ma questo dovrebbe essere considerata una scintilla di speranza per un futuro migliore, piuttosto che una ragione di apprensione.

Con tutti questi caveat il documentario di Gibb/Moore, che ha superato abbondantemente 6 milioni di visualizzazioni ed è disponibile gratis su Youtube, merita.

In primo luogo ci ricorda che bisogna evitare di porsi di fronte alle tecnologie come davanti a nuove forme di religione. Le tecnologie fossili, dall’industria del carbone a quella del petrolio, non sono state solo il male. C’è stato lo sfruttamento dei minatori raccontato in Germinale di Emile Zola, e quello dei Paesi produttori di petrolio evocato dal colpo di Stato contro Mossadeq in Iran o dai bombardamenti in Iraq. Ma è anche una storia di aumento del benessere individuale e, per lunghe fasi, di miglioramento del tenore di vita e di ritrovata dignità in Paesi come l’Algeria, il Venezuela, l’Iran.

All’opposto, anche se la necessaria riduzione delle emissioni di Co2 rende le rinnovabili una risposta inevitabile al problema del riscaldamento globale, esistono lati oscuri dell’economia verde: la difficoltà di stoccaggio dell’energia elettrica, il consumo del territorio e l’impatto sui paesaggio, la dipendenza dall’estrazione di un numero spropositato di risorse naturali e minerali che continua ad avvenire nella più completa assenza di regole (al contrario che nella più regolamentata industria petrolifera).

La seconda lezione è che il sole e il vento non si convertono miracolosamente in energia elettrica ma, perché questo accada, occorrono giganteschi investimenti, l’attivazione di processi industriali, la predisposizione di sofisticate reti infrastrutturali. Il dispiegamento di questo nuovo “sistema” energetico può avvenire nell’interesse dei detentori dei capitali o in quello di lavoratori e consumatori, di chi vuole proteggere l’ambiente o di chi non ha alcun interesse alla sua difesa.

La terza lezione deriva dall’identificare la crisi ecologica principalmente con ladiminuzione dei livelli di CO2. L’impatto della specie umana sulle foreste, sugli oceani, sul territorio, dipende in buona parte dall’attuale modello di produzione e di consumi, combinato con una crescita della popolazione che ha portato la specie umana a passare da 1 a 7 miliardi di individui negli ultimi due secoli. Se il tema della “decrescita” resta urticante per molti, il tema della “qualità” della crescita, della sua distribuzione tra vari strati sociali di uno stesso Paese, nonché tra diverse aree del mondo, resta assolutamente prioritario.

Quando alla fine degli anni 60 i norvegesi hanno scoperto grandi giacimenti di petrolionel Mare del Nord, per prima cosa hanno aperto un solenne dibattito parlamentare che ha portato all’approvazione dei cosiddetti “10 comandamenti” dell’industria petrolifera: prevedevano per esempio la creazione di una società statale del petrolio, un limite alla dipendenza dalle esportazioni di petrolio, il divieto di bruciare il gas associato alla produzione di petrolio. Solo a valle di questo dibatitto è stata avviata la produzione. Questo approccio ha reso la Norvegiaun modello per tutto il mondo (al contrario della Gran Bretagna) dimostrando la priorità della scelte politiche rispetto a quelle economiche. Lo stesso approccio politico e regolatorio dovrebbe incardinare l’avvento dell’economia verde.

Bisogna stabilire prima dei principi, per esempio su forniture gratuite di elettricità per i piccoli consumatori, sul ciclo di vita di pannelli e pale eoliche, su prezzi delle materie prima che garantiscano i Paesi esportatori. Senza un dibattito politico non è assolutamente detto che il mondo “verde” delle rinnovabili diventi migliore(sempre che riesca ad proporsi come un vero sostituto) rispetto a quello “nero”, del carbone e del petrolio.

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