L’ombra di Trump dietro il disastro del laboratorio di Wuhan

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Sono venti mesi che la Cina di Xi Jinping impedisce al mondo di indagare sulle origini della pandemia. E al di là della tensione con Pechino e dei quattro milioni e mezzo di morti complessivi, non è una brutta notizia per il presidente americano Joe Biden, già alle prese con il dossier Afghanistan alla vigilia del ventesimo anniversario del massacro dell’11 settembre. Un’inchiesta autonoma e trasparente sul Sars-CoV-2 dovrebbe infatti notare che, anche sotto l’amministrazione di Donald Trump, gli Stati Uniti hanno abbondantemente finanziato gli esperimenti di aumento di funzione dei coronavirus dei pipistrelli, eseguiti dall’Istituto di Virologia di Wuhan, perché potessero acquisire la capacità di infettare le cellule umane. La collaborazione internazionale ha poi permesso agli scienziati militari e civili cinesi, nella prima città colpita dall’epidemia, di proseguire soli le stesse attività di ricerca che tre anni prima Barack Obama aveva vietato negli Usa proprio per la loro pericolosità.

Mancando un’indagine indipendente, ancora non abbiamo prove di quello che è avvenuto tra il 2017 e la diffusione del contagio proprio a Wuhan nell’autunno 2019. Anche se le singolari parentele genetiche e geografiche del virus Sars-CoV-2 suggeriscono un’origine apparentemente naturale, ma in realtà guidata dagli scienziati attraverso processi che vedremo più avanti. Ciò che è invece provato, da documenti successivamente rimossi dai siti cinesi (ma che sono in nostro possesso), è la stretta collaborazione dell’Istituto di Virologia con il programma di ricerca sui coronavirus dell’esercito popolare, sempre smentita dalle autorità del regime comunista. E questo non dovrebbe imbarazzare soltanto Trump e Biden, ma anche il presidente francese Emmanuel Macron.

Secondo quegli stessi documenti, il vicedirettore di uno dei due comitati internazionali che avrebbero dovuto sorvegliare l’attività scientifica a Wuhan era, fin dopo lo scoppio della pandemia, Hervé Raoul, condirettore – così viene indicato – del laboratorio “Jean Mérieux” di Lione. Il più importante centro francese è gestito da Inserm, l’Istituto nazionale della salute e della ricerca medica che, con un corso di poche settimane, aveva addestrato i ricercatori di Wuhan a operare nel loro nuovo laboratorio di biosicurezza nazionale, costruito dalla Francia. Tra loro, la professoressa Shi Zhengli, a capo dei principali studi sui coronavirus e vicedirettrice del laboratorio cinese.

Il nome di Hervé Raoul, nell’elenco del comitato, appare tra il direttore Linfa Wang, che da anni collabora con Shi Zhengli, e il colonnello Wu-Chun Cao, uno dei massimi depositari dei segreti della ricerca virologica dell’esercito cinese, al servizio dell’Istituto di Microbiologia e epidemiologia dell’Accademia militare delle scienze mediche di Pechino. Perfino due dei cinque membri del comitato accademico del laboratorio di biosicurezza nazionale di Wuhan, tra i quali il vicedirettore, sono scienziati militari. Ciò che è ancora più sorprendente riguarda, però, i quattordici componenti internazionali dei comitati, uno di sorveglianza e l’altro di valutazione delle performance dell’Istituto di Virologia di Wuhan: dei sei scienziati di fama mondiale che hanno risposto alle nostre email, cinque hanno dichiarato di non aver mai saputo di essere membri dei due comitati e di aver visitato l’ultima volta l’Istituto di Virologia di Wuhan soltanto nel 2012 o nel 2013. L’istituto di Wuhan avrebbe quindi dichiarato il falso.

Tra i cinque, c’è perfino un collega di Raoul: il professor Christian Bréchot, direttore generale di Inserm dal 2001 al 2007, poi vicepresidente dell’Istituto Mérieux e, dal 2013 al 2017, presidente dell’Istituto Pasteur di Parigi. Insomma, non l’ultimo arrivato. «Sebbene loro possano aver mantenuto il mio nome sulla lista del loro comitato consultivo», risponde il professor Bréchot, «io non sono in contatto con l’Istituto di virologia di Wuhan dagli anni intorno al 2012». Né Hervé Raoul né Inserm, per ben tre volte da maggio 2020, hanno mai risposto alle nostre domande.

Ma torniamo al 2017. Il 10 febbraio di quell’anno, dieci mesi prima che Trump autorizzi nuovamente gli esperimenti di aumento di funzione negli Stati Uniti, Shi Zhengli e il collega americano Peter Daszak, insieme con Linfa Wang da Singapore e altri quattordici ricercatori cinesi, consegnano alla rivista “Plos Pathogens” un articolo scientifico che illustra la loro ricerca sul campo e in laboratorio cominciata nell’aprile 2011. Lo studio rientra nelle indagini sulle origini della prima epidemia di Sars, la sindrome respiratoria acuta grave che aveva colpito la Cina tra il 2002 e il 2004 e che per mesi era stata nascosta dal regime di Pechino.

In questo studio, Shi Zengli e Peter Daszak chiamano SARS-CoV i coronavirus umani della Sars e SARSr-CoV i coronavirus imparentati che i ricercatori hanno estratto dagli escrementi dei pipistrelli cinesi (SARSr significa infatti Sars-related). Scrivono a pagina 11 del loro articolo: «Abbiamo fabbricato un gruppo infettivo di cloni con la struttura del coronavirus WIV1 e varianti dei geni della proteina S spike di otto differenti SARSr-CoV dei pipistrelli».

Soltanto due cloni riescono a replicarsi nelle colture cellulari, insieme con un nuovo coronavirus appena isolato: «Per valutare se i tre nuovi SARSr-CoV possono usare l’enzima umano Ace2 come recettore cellulare di ingresso, abbiamo condotto studi di infettività virale usando cellule umane (HeLa cells) con e senza l’espressione dell’enzima Ace2 umano. Tutti i virus replicano efficientemente nelle cellule umane che esprimono l’enzima Ace2». Significa che i due cloni costruiti in laboratorio potrebbero infettare l’uomo direttamente.

Ciò che renderebbe questo esperimento una “gain of function”, o aumento di funzione, è la fabbricazione delle due pericolose chimere, che in natura non sarebbero esistite. Oltre che dai fondi statali cinesi, l’indagine dell’Istituto di Virologia di Wuhan guidata da Shi Zhengli e Peter Daszak è finanziata da due importanti enti statali americani. Uno è il NIAID, l’Istituto nazionale per le allergie e le malattie infettive diretto da Anthony Fauci, all’interno dei National Institutes of Health.

L’altro è USAID, l’Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale, attraverso il Predict program per la prevenzione delle pandemie. Il professor Daszak è invece fondatore e presidente di EcoHealth Alliance, un’organizzazione non governativa con sede a New York che aveva e ha tuttora l’ambizione di isolare il maggior numero di virus dagli animali selvatici per anticipare le future epidemie. Non sempre con successo.

Proprio su questi finanziamenti – che hanno aggirato il divieto di Obama agli esperimenti di aumento di funzione – Fauci, oggi consigliere medico del presidente Biden, durante un’audizione in luglio è stato accusato dal senatore Rand Paul di avere mentito al Congresso. Scatenando la reazione in aula del professore ottantenne: «Lei non sa di cosa sta parlando». Purtroppo le precedenti uscite fantascientifiche del senatore, non lo rendono un testimonial credibile.

È inoltre altrettanto curioso che l’Organizzazione mondiale della sanità abbia inserito Daszak nella propria delegazione inviata in Cina per l’indagine farsa di metà febbraio 2021. Anche di fronte al più trasparente degli scienziati, la gravità della pandemia dovrebbe escludere dall’inchiesta persone in possibile conflitto di interessi.

Sono proprio le ricerche dual-use, civili e militari, dell’Istituto di Virologia di Wuhan, seguite ai finanziamenti americani, che andrebbero indagate per prime. Nello studio di Shi Zhengli e Peter Daszak viene infatti confermato l’interesse dell’Istituto di Virologia di Wuhan nella grande capacità dei virus dei pipistrelli a ricombinarsi tra di loro: cioè a scambiarsi casualmente i loro geni, dando origine a nuovi coronavirus, magari più infettivi e più adatti al salto di specie in altri animali e nell’uomo.

«L’evoluzione dei coronavirus dei pipistrelli imparentati con la Sars», scrivono però Shi Zhengli e Peter Daszak nel 2017, «è fortemente correlata alla loro origine geografica e non alla specie degli animali ospiti». Come in ogni giallo poliziesco, la traccia genetica dell’assassino parla a chi la sa ascoltare. E i geni del coronavirus Sars-CoV-2 confessano di essere strettamente imparentati con tre coronavirus dei pipistrelli. Due (chiamati ZC45 e ZXC21) sono stati prelevati a Est, dall’arcipelago di Zhoushan nella provincia di Zhejiang, e registrati nel 2018 dal comando dell’Istituto di medicina militare di Nanchino e dalla Terza Università medica militare di Chongqing.

Il terzo (RaTG13) è stato prelevato da una miniera della provincia di Yunnan a Sud-Ovest, nel 2013, e registrato soltanto il 27 gennaio 2020, a epidemia già scoppiata, da Shi Zhengli. L’arcipelago e la miniera però sono separati da oltre duemilaseicento chilometri e i pipistrelli non volano più di qualche decina di chilometri. Mentre l’epidemia scoppia lungo il percorso, cioè a Wuhan. Quindi una correlazione geografica di questo tipo in natura non dovrebbe esistere. Allora perché esiste?

L’ipotesi scientifica, che senza un’indagine sul campo rimarrà soltanto un’ipotesi, è stata spiegata il 20 agosto scorso alla conferenza della Federazione mondiale degli scienziati da uno studioso attento e competente come Massimo Ciccozzi, professore dell’Università Campus Bio-Medico di Roma. «Alcuni genomi virali taglia e incolla mantengono segni rivelatori di manipolazione. Ma i metodi più recenti, chiamati seamless», cioè senza cucitura, ha spiegato il professor Ciccozzi durante la conferenza, «non lasciano segni distintivi. Se un virus è stato manipolato, con un metodo seamless o tramite un passaggio seriale nelle colture cellulari, non c’è modo di saperlo. Nemmeno l’evoluzione guidata attraverso un passaggio seriale negli animali lascia tracce».

In quest’ultimo procedimento, si fanno convivere pipistrelli o animali serbatoio provenienti da regioni diverse e si selezionano i coronavirus generati dai processi di ricombinazione in modo da guidare la loro evoluzione: magari verso agenti patogeni più infettivi o più adatti al salto di specie. Qualunque analisi filogenetica successiva a una contaminazione, a un eventuale incidente di laboratorio e a un’epidemia scoprirebbe soltanto il passaggio dai pipistrelli all’uomo. È il gap geografico di Sars-CoV-2 a suggerire oggi un’ipotesi innaturale sulla sua origine.