L’invecchiamento fa parte della vita. È una fase dell’esistenza a cui nessuno sfugge, da sempre. Il biologo Andrew Steele, però, non è dello stesso parere e in un’intervista al Guardian spiega perché anche la senilità è una malattia che può essere curata.

Per togliere ogni dubbio, Steele chiarisce subito che la sua non è una suggestione da scienziato pazzo, né intende, con la sua ricerca, sostituirsi a Dio. Quello che lo scienziato britannico studia è il modo di prolungare la vita delle persone, fino ai 150-200 anni, e di rallentare il processo di degenerazione delle patologie tipiche della tarda età. In altre parole, Steele sta cercando di capire come fare ad «aumentare la durata della salute di una persona e non allungare uno stato di terribile vecchiaia, come possono essere la fase degli ottantenni e dei novantenni».

Non si stratta quindi di «stare seduti in una casa di cura per 50 anni di più», ma al contrario di dare l’opportunità «ai 150enni si sentirsi sani quasi come i 20enni», continua Steele. Come è possibile? È eticamente giusto? Quali conseguenza avrà a livello globale e demografico?

Andiamo con ordine. Pensiamo all’invecchiamento come a un fatto inevitabile della vita: nasciamo, invecchiamo e moriamo. «Ma se non fosse strettamente necessario?» si chiede il biologo. Steele ha iniziato la vita professionale come fisico, ma ha passato gli ultimi tre anni a fare ricerca per il suo libro sulla biogerontologia (lo studio scientifico dell’invecchiamento), “Ageless: The New Science of Getting Older Without Getting Old”.

Nel testo definisce l’invecchiamento come «il più grande problema umanitario del nostro tempo» e «la principale causa di sofferenza nel mondo». Perché secondo Steele il cancro, la cardiopatia, gli ictus, sono tutte patologie che si verificano nelle persone anziane, principalmente a causa proprio del processo di invecchiamento.

«È un aumento esponenziale della sofferenza in una persona», per questo sarebbe utile «provare a rallentare il processo con gli strumenti della scienza», continua Steele. Il rischio umano di morte raddoppia infatti ogni sette o otto anni. Tendiamo a passare i primi cinque o sei decenni di vita relativamente indenni, dal punto di vista della salute. Il rischio di morte di un bambino di 10 anni è dello 0,00875%. A 65 anni il rischio è salito all’1%. Quando compiamo 92 anni abbiamo una possibilità su cinque di morire.

Il corpo ha lavorato instancabilmente per anni e gli effetti interni di quell’azione provocano l’accumulo di cellule invecchiate e senescenti (non più in grado di proliferare), il costante declino del sistema immunitario e il generale logoramento delle struttura corporea. Questo ci predispone improvvisamente a una varietà di malattie legate all’età: cancro, malattie cardiovascolari, ipertensione, demenza.

«Il sogno della medicina anti-invecchiamento», scrive Steele nel suo libro, «è un trattamento che identificherebbe le cause profonde della disfunzione man mano che invecchiamo, per poi rallentarne la progressione o invertire la tendenza». Queste cause profonde sono ciò che i biogerontologi chiamano tratti distintivi. «Il cancro non è un tratto distintivo dell’invecchiamento», dice ancora Steele, «ma è causato da molti dei tratti dell’invecchiamento». Se gli scienziati possono affrontare questi tratti distintivi, «possono elaborare trattamenti che rallentano l’intero processo di invecchiamento, rimandando le malattie nel futuro».

La speranza, ripete Steele, non è quella di vivere più a lungo per il gusto di farlo, ma di vivere più a lungo in buona salute. Negli ultimi tre decenni la ricerca biogerontologica ha registrato un’accelerazione e i recenti successi hanno suscitato entusiasmo. Uno studio del 2015, pubblicato dalla Mayo Clinic negli Stati Uniti, ha scoperto che l’uso di una combinazione di farmaci esistenti – il dasatinib, un medicinale antitumorale, e la quercetina, che a volte è usato come soppressore dietetico – può rimuovere le cellule senescenti nei topi invertendo i tratti distintivi dell’invecchiamento.

In un altro studio, il farmaco spermidina ha esteso la durata della vita dei topi del 10%. Così come il farmaco rapamicina ha esteso la durata della salute di topi, vermi e mosche, sebbene con effetti collaterali problematici, tra cui la soppressione del sistema immunitario e la perdita di peli.

«Dopo il successo nei topi, nel 2018 è iniziata la prima sperimentazione volta a rimuovere le cellule senescenti negli esseri umani e altre sono in corso. Uno studio più recente ha scoperto che una combinazione di ormoni e farmaci sembra aiutare a ringiovanire il timo (ghiandola collocata nel torace), che contribuisce al sistema immunitario ma degenera rapidamente con l’età» puntualizza il biologo. L’anno prossimo, invece, inizierà una sperimentazione per studiare come la metformina, un farmaco usato per trattare il diabete, potrebbe effettivamente ritardare «lo sviluppo o la progressione di malattie croniche legate all’età – come malattie cardiache, cancro e demenza», aggiunge.

Nonostante lo scetticismo di alcuni componenti della comunità scientifica mondiale, secondo Steele, molto probabilmente «avremo un farmaco che tratta l’invecchiamento nei prossimi 10 anni». Le nostre vite saranno quindi estese, non tutte in una volta ma in modo incrementale, fino ad arrivare ai 150 anni.

Ciò di cui sta parlando Steele non è l’immortalità, le persone continueranno a morire, ma la ricerca scientifica semplicemente allungherà la durata della vita. «Il guaio è che dire che avremo 150enni in giro con l’aspetto di 20enni, è strano. Sembra fantascienza. Sembra un po’ inquietante» svela il biologo. «Quello che cerco però non è avere un carico di 150enni che sembrano ventenni, ma un carico di 150enni che non avranno il cancro, non avranno malattie cardiache, non saranno alle prese con l’artrite. Giocheranno ancora con i loro nipoti, persino con i loro pronipoti. Tutto questo riguarda i benefici per la salute e lo stile di vita».

E a coloro che gli chiedono le implicazioni etiche di questa ricerca, tirando fuori anche il tema del sovraffollamento che un blocco dei decessi provocherebbe, Steele scuote la testa. E risponde: «Se avessi detto “Ecco un’idea che potrebbe curare il cancro, malattie cardiache, ictus” avrei ottenuto solo plausi. Ma non appena suggerisci un modo potenzialmente efficace per affrontarli del tutto, all’improvviso sei uno scienziato pazzo che vuole sovrappopolare la Terra e scatenare una terribile apocalisse».

Questo è un ostacolo importante per il potenziale successo della biogerontologia: il nostro «incredibile pregiudizio verso lo status quo» dell’invecchiamento come un processo inevitabile e la nostra incapacità di accettarlo come curabile, puntualizza il biologo. L’idea, infine, è quella di poter tornare a scuola a 60 anni, o cambiare carriera a 105 o, a 40, decidere di prenderci una sorta di pausa di 20 anni alla ricerca dello spirito, sapendo che avremo un secolo o più per fare altre cose.

E la morte? «Poiché la morte è inevitabile, le persone l’hanno razionalizzata come qualcosa che guida la vita, o dà senso alla vita, o aggiunge una sorta di poesia alla condizione umana», dice Steele. «Ma penso che, in generale, la morte sia un male. E sebbene la mia passione per il trattamento dell’invecchiamento non sia guidata dalla riduzione della quantità di morte, bensì dalla riduzione della cattiva salute in età avanzata, dalla sconfitta delle malattie e dall’eliminazione della sofferenza, penso che avere meno morte nel mondo non sia una cosa negativa» conclude.