Queste righe sono state scritte nel Giorno del ricordo in Italia, 10
febbraio 2005-2021 – quel dispiacere lo condivido con molti cittadini di
questo Paese. I crimini delle fosse e quelli che in esse vi sono
finiti, ciò che le ha precedute e che le ha seguite, l’ho condannato da
tempo – mentre vivevo in Jugoslavia, quando di ciò in Italia si parlava
raramente e non abbastanza. Ho scritto pure sui crimini di Goli Otok,
di cui sono state vittime molti comunisti, Jugoslavi e Italiani che
erano più vicini a Stalin e Togliatti che al “revisionismo” di Tito. Ho
parlato anche della sofferenza degli esiliati italiani dall’Istria e
dalla Dalmazia, dopo la Seconda Guerra mondiale – l’ho fatto in
Jugoslavia, dove probabilmente era più difficile che in Italia. Non so
di preciso quanti scrittori italiani ho presentato, che allora erano
costretti ad andare via e quelli che sono rimasti: Marisa Madieri, Anna
Maria Mori, Nelida Dilani, Diego Zandel, Claudio Ugussi, Giacomo
Scotti, ecc. Non ricordo quanti articoli ho pubblicato sulla stampa
delle minoranza italiana, poco conosciuta in Italia, così da poterla
appoggiare, desiderando che fosse meno sola e meno esposta – e anche
loro mi hanno appoggiato quando decisi di andarmene.

Le fosse, o le foibe come le chiamano gli Italiani, sono un crimine
grave, e coloro che lo hanno commesso si meritano la più dura condanna.
Ma bisogna dire sin da ora che a quel crimine ne sono preceduti degli
altri, forse non minori. Se di ciò si tace, esiste il pericolo che si
strumentalizzino e “il crimine e la condanna” e che vengano manipolati
l’uno o l’altro. Ovviamente, nessun crimine può essere ridotto o
giustificato con un altro. La terribile verità sulle foibe, su cui il
poeta croato Ivan Goran Kovačić ha scritto uno dei poemi più commoventi
del movimento antifascista europeo, ha la sua contestualità storica,
che non dobbiamo trascurare se davvero desideriamo parlare della verità
e se cerchiamo che quella verità confermi e nobiliti i nostri
dispiaceri. Perché le falsificazioni e le omissioni umiliano e
offendono.

La storia ingloriosa iniziò molto prima, non lontano dai luoghi in cui
furono commessi i crimini. Prenderò qualcosa dai documenti che abbiamo
a disposizione: il 20 settembre 1920 Mussolini tiene un discorso a Pola
(non scelse a caso quella città). Annuncia: “Per la creazione del
nostro sogno mediterraneo, è necessario che l’Adriatico (si intende
tutto l’Adriatico, ndr.), che è il nostro golfo, sia in mano nostra; di
fronte alla inferiorità della razza barbarica quale è quella slava”. Il
razzismo così entra in scena, seguendo la “pulizia etnica” e il
“trasferimento degli abitanti”. Le statistiche che abbiamo a
disposizione fanno riferimento alla cifra approssimativa di 80.000
esuli Croati e Sloveni durante gli anni venti e trenta. Non sono
riuscito a confermare quanti poveri siano stati portati dalla Calabria,
e non so da dove altro, per poterli sostituire. Gli Slavi perdono il
diritto, che avevano prima in Austria, di potersi avvalere della
propria lingua sulla stampa e a scuola, il diritto al predicare in
chiesa, e persino l’iscrizione sulla tomba. Le città e i villaggi
cambiano nome. I cittadini e le famiglie pure. Lo Stato italiano
estesosi dopo il 1918 non tenne in considerazione le minoranze e i loro
diritti, cercò o di denazionalizzarli totalmente o di cacciarli.
Proprio in questo contesto per la prima volta si sente la minaccia
delle foibe. Il ministro fascista dei lavori pubblici Giuseppe Caboldi
Gigli, che si attribuì l’appellativo vittorioso di “Giulio Italico”,
scrive nel 1927: “La musa istriana ha chiamato con il nome di foibe
quel luogo degno per la sepoltura di quelli che nella provincia
dell’Istria danneggiano le caratteristiche nazionali (italiane)
dell’Istria” (“Gerarchia”, IX, 1927). Lo zelante ministro aggiungerà a
ciò anche dei versi di minacciose poesie, in dialetto: “A Pola xe
arena, Foiba xe a Pizin” (“A Pola c’è l’arena, a Pazina le foibe”).
Mutuo questo detto da Giacomo Scotti, scrittore italiano di Rijeka.

Le “foibe” sono, quindi, un’invenzione fascista. Dalla teoria si è
passati velocemente alla prassi. Il quotidiano triestino “Il Piccolo”
(5.XI.2001) riporta la testimonianza dell’ebreo Raffaello Camerini che
era ai lavori forzati in Istria, alla vigilia della capitolazione
dell’Italia, nel luglio 1943: la cosa peggiore che gli successe fu
prendere gli antifascisti uccisi e buttarli nelle fosse istriane, per
poi cospargere i loro corpi con la calce viva. La storia avrebbe poi
aggiunto a ciò ulteriori dati. Uno dei peggiori criminali dei Balcani
fu di sicuro il duce ustascia Ante Pavelić. Jasenovac fu un Auschwitz
in piccolo, con la differenza che in esso si facevano lavori perlopiù
“manualmente”, ciò che i nazisti fecero “industrialmente”. E le fosse,
ovviamente, furono una parte di tale “strategia”. Mi chiedo se anche
uno degli scolari italiani in uno dei suoi sussidiari poteva leggere
che quello stesso Pavelić con le squadre dei suoi seguaci più criminali
per anni godette dell’ospitalità di Mussolini a Lipari, dove ricevette
aiuto e istruzioni dai già allenati “squadristi” fascisti. Quelli che
oggi parlano dei programmi scolastici in Italia e sul luogo delle
foibe, non dovrebbero trascurare di includere anche questi dati. E
anche altro vale la pena di ricordare: il governo di Mussolini aveva
annesso la maggior parte della Slovenia insieme con Lubiana, la
Dalmazia, il Montenegro, una parte della Bosnia Erzegovina, l’intera
Bocca di Cattaro. A quel tempo, tra il 1941 e il 1943, di nuovo, furono
cacciati dall’Istria circa 30.000 Slavi – Croati e Sloveni – e fu
occupata la regione. Le “camicie nere” fasciste portarono a termine
fucilazioni individuali e di massa. Fu falciata un’intera gioventù. I
dati che provengono da fonti jugoslave fanno riferimento a circa
200.000 uccisi, particolarmente sulle coste e sulle isole. La cifra mi
sembra che sia però ingrandita – ma anche se solo un quarto
rispecchiasse la realtà, sarebbe già molto. In Dalmazia gli occupanti
italiani catturarono e fucilarono Rade Končar, uno dei capi del
movimento, il più stretto collaboratore di Tito. In determinate
circostanze hanno pure aiutato il capo dei cetnici serbi in Dalmazia,
il pope Ðuijić, che incendiò i villaggi croati e sgozzò gli abitanti,
vendicandosi con gli ustascia per i massacri che avevano commesso
contro i Serbi. Così da fuori prese impulso pure la guerra civile
interna. A ciò occorre aggiungere l’intera catena dei campi di
concentramento italiani, i più piccoli e i più grandi, dall’isoletta di
Mamula nel profondo sud, davanti a Lopud nelle Elafiti, fino a Pago e
Rab nel golfo del Quarnaro. Erano spesso stazioni di transito per la
mortale risiera di San Sabba di Trieste, e in alcuni casi anche per
Auschwitz o Dachau. I partigiani non furono protetti dalla Convenzione
di Ginevra (in nessun luogo al mondo) così che i prigionieri furono
subito fucilati come cani. Molti terminarono la guerra con gravi
ferite, corporali e morali. Tali erano quelli in grado di commettere
crimini come le foibe.

Non c’è nessun dato in nessun archivio, militare o civile, sulla
direttiva che sarebbe giunta dall’Alto comando partigiano o da Tito: le
unità di cui facevano parte molti di quelli che avevano perso i
familiari, i fratelli, gli amici, commisero dei crimini “di propria
mano”. Purtroppo, il fascismo ha lasciato dietro di sé talmente tanto
male che le vendette furono drastiche non solo nei Balcani.
Ricordiamoci del Friuli, nella parte confinante con l’Italia, dove non
c’erano scontri tra nazionalità: i dati parlano di diecimila uccisi
senza tribunale, alla fine della guerra. In Francia ce ne furono oltre
50.000. In Grecia non so quanti.

In Istria e a Kras dalle foibe sono stati esumati fino ad ora 570 corpi
(lo storico triestino Galliano Fogar ne riporta persino un numero
minore, notando che nelle fosse furono gettati anche alcuni soldati
uccisi sui campi di battaglia, non solo Italiani). Oggi possiamo
sentire la propaganda che su svariati media italiani fa riferimento a
“decine di migliaia di infoibati”. Secondo lo storico italiano Diego de
Castro nella regione furono uccisi circa 6.000 Italiani. Non serve
aumentare o licitare quel tragico numero, come in questo momento
sembrano fare i giornali italiani, con 30.000 o 50.000 uccisi. Bisogna
rispettare le vittime, non gettare sulle loro ossa altri morti, come
hanno fatto gli “infoibatori”.

Per ciò che riguarda invece i luoghi che tutti questi dati occupano
nell’immaginario, non mi sembra che sia benvenuta la propaganda che
come tale è diffusa dal film “Il cuore nel pozzo”, che in questi giorni
è stato visto in televisione da circa 10 milioni di Italiani,
pubblicizzato in un modo incredibilmente aggressivo. Nessuna
testimonianza storica parla di una madre che i partigiani portano via
dal figlio e poi la buttano nelle foibe! Questa è un’invenzione
tendenziosa dello sceneggiatore. Il cinema italiano ha una eccellente
tradizione nel neorealismo, una delle più significative di tutta la
moderna cinematografia – non gli servono dei modelli simili al
“realismo sociale”, dei film sovietici girati negli anni sessanta del
secolo scorso. E nei preparativi, che in questi giorni sono stati
organizzati, o nelle trasmissioni tv più guardate, sarebbe stato meglio
se ci fosse stato qualche ministro che avesse, rispetto al fascismo, un
diverso passato piuttosto che quelli che abbiamo visto in scena. Ciò
sarebbe servito da modello e autenticità alle testimonianze.

La Jugoslavia non esiste più. Croati, serbi, sloveni e gli altri
nazionalisti si compiacciono quando la destra italiana gli offre nuovi
argomenti per accusare lo Stato che essi stessi hanno lacerato.
(Ricordiamoci che il film è stato girato in Montenegro, nella Bocca di
Cattaro, con un attore serbo che interpreta il ruolo del partigiano
sloveno…) Così di nuovo si feriscono i popoli le cui cicatrici ancora
non sono state medicate. È questo il modo migliore – in particolare se
se allo stesso tempo si nasconde tanto quanto non corrisponde a verità?
Perché, non c’è una qualche via migliore? Il dispiacere che
condividiamo può essere reso in un modo più degno e nobile, la storia
in modo meno mutilato e difettoso? Non è fino a ieri che vicino a
Trieste passava la più aperta frontiera tra l’Oriente e l’Occidente, al
tempo della guerra fredda e della grande prosperità della città di San
Giusto? Gli Italiani e i Croati in Istria, in questi ultimi anni, non
hanno forse trovato un linguaggio comune per opporsi al nazionalismo
tudjmaniano molto più di quanto non sia stato fatto altrove in Croazia?
E alla fine a chi serve questa strumentalizzazione di cui siamo
testimoni?

Non siamo ingenui. Si tratta di una mobilitazione eccezionalmente
riuscita del berlusconismo nello scontro con l’opposizione, con la
sinistra e le sue relazioni col comunismo che, secondo le parole di
Berlusconi, ha sempre e solo portato “miseria, morte e terrore”, e
persino anche quando sacrificò 18 milioni di vittime di Russi nella
lotta per la liberazione dell’Europa dal fascismo. Questa campagna
meditata è iniziata 5-6 anni fa, al tempo in cui fu pubblicato “Il
libro nero sul comunismo”, distribuito pubblicamente dal premier ai
suoi accoliti. Essa è condotta, pubblicamente e dietro le quinte,
abilmente e sistematicamente. Il suo vero scopo non è nemmeno quello di
accusare e umiliare gli Slavi, ma danneggiare i propri rivali e
diminuire le loro possibilità elettorali. Ma gli Slavi – in questo caso
perlopiù Croati e Sloveni – ne stanno pagando il conto.

Esiste una sorta di “anticomunismo viscerale” che secondo le parole di
un mio amico, il geniale dissidente polacco Adam Michnik, è peggio del
peggiore comunismo. Il sottoscritto forse ne sa qualcosa di più: ha
perso quasi l’intera famiglia paterna nel gulag di Stalin. Ma per
questo non disprezza di meno i fascisti